In questa puntata di storia dell’agricoltura parleremo della coltivazione della vite e dei trattamenti della vigna. Dopo circa un mese dalla legatura cominciavano i trattamenti con il ramato. La botte sopra il carro veniva riempita d’acqua e il sacco di iuta contenente i cristalli di rame era posto a bagnomaria dallo sportello superiore sostenuto da un legnetto. Quei sassetti di colore verde tendente al blu impiegavano, mi sembra di ricordare, almeno 24 ore per sciogliersi totalmente. L’acqua assumeva lo stesso colore dei cristalli per divenire celeste dopo che vi era sciolta una piccola quantità di calce spenta.
Trattamenti della vigna: ramato e calce
La calce si ottiene dalla cottura ad altissima temperatura di pietra calcare. Si tratta però di calce viva, che prima di usarla deve essere spenta. Per fare questa operazione si mettevano queste pietre in un contenitore aggiungendovi gradualmente dell’acqua. Si aveva una reazione molto violenta: la calce scoppiettando e fumando produceva un notevole calore. Occorreva molta prudenza durante questa fase: un eventuale schizzo di questa materia avrebbe procurato ustioni, particolarmente importante era proteggere gli occhi. Terminata la reazione la calce si era trasformata in una bianca e morbida pasta. Questa materia lasciata nel suo contenitore, coperta da un leggero strato di acqua, si conservava a lungo e poteva essere usata per tutta la stagione dei trattamenti.
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foglie di vite (pampani)
Il ramato serviva a combattere la peronospora, malattia fungina favorita da condizioni di caldo umido che, se non combattuta, provoca la caduta di foglie e grappoli. La calce è necessaria per far ben aderire il prodotto sui pampini.
Prima di iniziare il trattamento si doveva fare attenzione che non ci fosse imminente rischio di pioggia, che avrebbe lavato il prodotto se non ancora asciutto. Inoltre occorreva che le piante non fossero ancora bagnate da precedente pioggia o guazza (rugiada addensata). Per irrorare il prodotto si usava la stagna (pompa di metallo). Noi ne avevamo due, pertanto due persone vestite con tuta o vecchi abiti (alla fine del lavoro i panni erano di colore celeste qualunque fosse stato quello iniziale) riempivano il serbatoio della stagna alla cannella (rubinetto) della botte, se la ponevano sulle spalle ed iniziavano il lavoro. L’uscita del ramato dalla pompa era regolabile: andava da un getto unico che raggiungeva una notevole distanza ad una totale nebulizzazione. A supporto dei contadini con la stagna, se si dovevano allontanare troppo dalla botte, interveniva un altro familiare che con dei secchi trasportava il prodotto dove era necessario fare il rifornimento.
I trattamenti si ripetevano ogni 10-15 giorni, secondo l’andamento della stagione. In ogni caso era importante farli in via preventiva perché, qualora la malattia avesse contagiato le piante, sarebbe stato molto più difficile combatterla. Gli interventi si protraevano fino all’inizio della maturazione dell’uva.
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Altra insidia per l’uva era la così detta malattia dello zolfo (oidio). Si manifestava sui grappoli facendogli assumere in colore cenerino per portarli poi alla caduta. Per questa patologia si interveniva, sempre possibilmente in via preventiva, con lo zolfo. La stagna dello zolfo era simile a quella del ramato, solo che aveva la capacità erogare il prodotto in polvere.
Lavorazione del suolo: la vangatura
Oltre ai trattamenti contro i parassiti si doveva intervenire anche sul terreno con la vangatura, che era uno dei lavori più faticosi. Questa si effettuava in primavera quando la terra cominciava ad asciugarsi. Di solito due persone, uno a destra e l’altro a sinistra del filare, affondavano il più possibile la vanga nel terreno rovesciando poi il carico. Dal lato della forma (così chiamavamo la fossetta per lo scarico delle acque che stava tra un campo e l’altro) si batteva con la vanga il terreno smosso in modo da formare la cosiddetta guancia, consistente in una lunga linea di terreno allisciato che rappresentava il confine del campo. La vangatura era un lavoro molto lungo perché di prode e filari in un podere c’è ne erano molti. Nelle annate piovose la vangatura si protraeva fin quasi l’inizio dell’estate quando il terreno induriva velocemente. In quegli anni la vangatura poteva anche non essere completata: cosa che i contadini consideravano una vera vergogna.
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Mi chiedo se tutti quegli sforzi fossero veramente indispensabili. La vangatura eliminava totalmente l’erba dai filari che non aveva la possibilità di rinascere fino all’autunno. L’assenza di erba alta sotto le viti diminuiva il rischio delle malattie dell’uva. Inoltre il terreno allentato avrebbe favorito l’infiltrazione di acqua durante le piogge primaverili ed estive. Tuttavia oggi è opinione di molti che un tappeto di erba riesce a trattenere acqua ancora meglio del terreno smosso e nudo, in particolare con piogge intense. Inoltre per togliere umidità intorno alle viti poteva essere sufficiente tagliere frequentemente l’erba. A mio parere la vangatura nel complesso era utile, però questa utilità non era tale da ripagare gli enormi sforzi che il lavoro comportava.
Serie coltivazione della vite:
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- Come si faceva il vino, gli attrezzi in cantina
- Coltivazione della vite. Potatura, legatura e rincolco
- Svinatura, torchiatura e produzione dell’acquato
- Preparazione del vinsanto, aceto e grappa
- Coltivazione della vite, i trattamenti con ramato, zolfo e vangatura (questo articolo)
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Penso che i racconti del Sign. Vasco siano interessanti ed istruttivi soprattutto per noi che ormai siamo lontani dal mondo contadino fatto da chi risolveva tutto in autonomia e col proprio lavoro
Grazie mille, giro il commento al babbo che sarà sicuramente contento
Ricordo mio nonno quando usava il verderame sulle vigne … ma non e’ tossico anche quello. Si tratta sempre di metalli pesanti.
Ciao Emanuela, sì, infatti non lo usiamo più. Nei racconti il Babbo ricorda anche le pratiche dell’epoca