Terminata la preparazione del terreno entrava in scena la seminatrice. Questa macchina, assieme all’aratro e al quaranta denti, doveva essere fornita dal padrone del podere. Se il padrone non possedeva la seminatrice dovevamo prenderla in prestito da un vicino.
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Come avveniva la semina del grano una volta
La seminatrice aveva una lunghezza compresa tra i 2,5 e 3 metri, con le due ruote molto alte e un serbatoio per i semi a forma triangolare per tutta la lunghezza della macchina con un divisorio al centro. In fondo al serbatoio c’era un asse dentato regolato da una leva che permetteva l’uscita di quantità variabili di semi. Il seme (si usava la parola al singolare per riferirsi all’insieme del grano da seminare) usciva da delle bocchette, le quali erano collegate con tubi flessibili a dischi, al lato dei quali stavano le bocchette di uscita. Durante la marcia della seminatrice, come gli altri mezzi trainata da una coppia di bestie, i dischi incidevano il terreno e contemporaneamente il seme scendeva nei solchetti che si creavano. Appena passato il disco il piccolo solco si richiudeva ed il seme rimaneva interrato. Dietro ad ogni disco erano applicate delle catene formate da pesanti anelli che perfezionavano la copertura del seme. Al momento del riempimento del serbatoio al seme del grano veniva mischiata una polvere di colore celeste, il caffaro (dal nome dell’azienda produttrice del pericoloso anticrittogamico), che serviva da protezione contro muffe e patogeni.
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La realizzazione dei solchi
Dopo aver seminato in tutto il campo si procedeva alla realizzazione dei solchi che servivano allo scolo delle acque. Per questo lavoro si usava uno speciale aratro in legno che aveva una punta al centro e delle specie di ali che si allargavano lateralmente. Sulla punta veniva applicato un vomere in ferro. Durante il traino la punta dell’aratro incideva il terreno e le ali allargavano il solco spostando la terra verso l‘esterno. Si aprivano solchi sia in senso verticale che orizzontale in numero funzionale allo scopo, secondo le dimensioni del campo e la pendenza del terreno. Si procedeva poi a ribattere i “cegli” (cigli), ovvero a spianare con la zappa gli orli che si creavano ai margini dei solchi.
Lavoro manuale con la zappa
La semina comportava molto lavoro manuale in particolare con la zappa. Oltre a quello già accennato, per rompere le zolle più ostinare e livellare i cigli sui solchi, occorreva anche completare la semina sugli angoli dei campi dove non poteva arrivare la macchina. In particolare, nelle annate di semina asciutta, poteva succedere che in alcune parti del campo il grano rimanesse scoperto. Occorreva quindi seguire la seminatrice ed eventualmente ricoprire il seme prima che gli uccelli lo beccassero. Difficoltà maggiori per la semina si incontravano in caso di pioggia eccessiva.
Sul campo le bestie e i mezzi affondavano e il grano posto sul terreno fangoso rischiava di non nascere. Ricordo in particolare un anno in cui, in una zona di campo dove l’acqua aveva ristagnato, le vacche sprofondarono fino alla pancia, con effetto sabbie mobili. Si venne a creare una situazione abbastanza pericolosa. Per uscirne gli uomini, per prima cosa, mantennero calme e ferme le bestie, carezzandole e tenendo il freno tirato. Poi le liberarono dagli attacchi e dal giogo. Una volta completamente libere, stimolate e con le briglie allentate, le bestie con movimenti decisi riuscirono a uscire dal pantano.
Per la semina si usava il grano che era stato appositamente accantonato, cercando di scegliere il migliore, al momento della precedente trebbiatura. Negli anni, però, ci si rese conto che non rinnovando mai il seme la resa del grano risultava scarsa. Si cominciò pertanto ad acquistare seme selezionato passando anche a qualità diverse ritenute più produttive. Questo aumentava i costi, ma era comunque conveniente in quanto i raccolti cominciarono ad essere più abbondanti.
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Buonasera Francesca.
Che bello leggere questa testimonianza di vita.Anche mia mamma,mi ha sempre raccontato storie della sua vita in campagna.Lei è del 1930 molti ricordi stanno svanendo,ma sono tutti rimasti nella mia mente,e hanno sempre fatto parte della mia educazione.Ho avuto anche la fortuna di trascorrere molto tempo della mia infanzia nel podere dove ancora abitava la sua famiglia.Ripenso sempre con nostalgia a quei tempi.Con il passare degli anni sono tornato a visitare il podere che non è più di proprietà della famiglia di mia mamma,ma ormai tutto è cambiato i poderi vicini sono stati tutti abbandonati,nei pochi ancora abitati ci sono cancelli invalicabili,abitati da ricchi proprietari,che no importa assolutamente niente della terra,ma hanno persone che fanno il lavoro per conto loro.Non conoscono neanche il profumo della loro terra.Per questo è anni che non ci vado e penso che non ci tornerò più voglio che i bei ricordi non siano inquinati dalla tristezza dell’oggi.Ti confido che spesso vado alla querce delle Checché da lì riesco,a vedere il podere,e quella vita così bella della mia infanzia.