Il mais è sta una delle colture che contribuivano al sostentamento delle famiglie contadine toscane. Era più comunemente chiamato granturco, a sottolineare la sua provenienza “esotica”. Era una coltura a cui si dedicava poco lavoro, ma forniva cibo a uomini e animali. Anche del mais non si buttava via niente.

Il granoturco si seminava insieme alle zucche

Il granturco (o mais) si seminava in primavera, spesso in sinergia con e zucche che costituivano cibo per i suini e maturavano nello stesso periodo. Dopo la semina il mais necessitava solo di qualche zappatura all’inizio della crescita, poi nessun lavoro fino alla raccolta.

mais coltivato

Mais coltivato al Bosco di Ogigia

La raccolta del mais

Quando si era deciso la sera che avremmo sgusciato il granturco si avvertivano i vicini, almeno un giorno prima per non correre il rischio di combinarsi con qualche altro. Durante il giorno si andava nel campo e con una falce si tagliava il gambo delle spighe, del granturco restava solo lo strocco che sarebbe stato raccolto successivamente. Delle spighe si formavano dei mucchietti che poi venivano caricati sul carro: di solito si facevano due viaggi. I carichi si depositavano nella rimessa degli attrezzi agricoli che era stata allo scopo completamente svuotata. Si formava un grosso mucchio allungato per tutta la stanza intorno al quale si posizionavano panche e sedie. Dopo cena le famiglie del vicinato si riunivano quasi al completo intorno al mucchio per scartocciare le pannocchie.

mais pannocchie

pannocchie di mais appena colte

La sgusciatura delle pannocchie

Si toglieva il gambo che aveva unito la spiga alla pianta e si denudava la pannocchia portando all’indietro gli strati del cartoccio protettivo. Poi si taccavano i fogli lasciandone almeno tre che servivano a legare le spighe in mazzi. Infine si gettavano i cartocci dietro le spalle mentre le spighe erano lanciate agli angoli del locale, con buona mira per non colpire le persone. Durante il lavoro si facevano molte chiacchiere tra vicini di seduta: si raccontavano barzellette, storielle varie, fatti presenti e passati ed anche molti pettegolezzi. Se qualcuno raccontava qualcosa di particolarmente interessante gli altri si mettevano in silenzio permettendo a tutto il gruppo di udire. Durante il lavoro le donne di casa provvedevano a raccogliere dentro un sacco i fogli del cartoccio più interni che erano sottili ed abbastanza morbidi. Servivano per riempire il saccone che stava nei letti sotto il materassi, dei quali era opportuno rinnovarne il contenuto ogni anno. La sgusciatura andava così avanti, agli angoli si formavano mucchi di spighe sempre più grandi e dietro le panche alti strati di cartocci.

Quando ero piccolo e partecipavo alla sgusciatura ricordo che dopo qualche ora, preso dal sonno, scendevo dalla panca e mi sdraiavo sopra i cartocci, e li restavo addormentato fino alla fine venendo completamente coperto dalle altre foglie che si formavano durante il lavoro, in questo modo ero protetto anche dal freddo. Il lavoro di solito terminava intorno alle ore 11 o poco oltre anche se alle volte si arrivava eccezionalmente fino alla mezzanotte. Poteva succedere anche che non riuscissimo a finire il lavoro senza fare le ore piccole, in questi casi si rinviava il lavoro alla sera successiva. Se il residuo era poco, provvedevano da soli i familiari durante il giorno o la sera.

La sistemazione delle spighe di granturco

Il mattino successivo alla sgusciatura si riordinava il locale: si toglievano le panche riponendole nel loro deposito, si raccoglievano tutti i cartocci trasferendoli nell’erbaio, dove mischiati ad erba o fieno erano foraggio per le bestie, si iniziava poi la sistemazione delle spighe di granturco. Questo lavoro consisteva nel legare le pannocchie attraverso le foglie che avevamo lasciate attaccate, formando mazzi di circa una trentina di pezzi. Il lavoro veniva eseguito in conseguenza anche della stagione. Se il tempo era bello avevano la precedenza i lavori dei campi e pertanto la cura del granturco era sospesa o eseguita da una sola persona. In caso di pioggia vi si dedicava tutta la famiglia. Alla fine i mazzi erano posti ad asciugare accavallati a delle pertiche. Le spighe sfuse, quelle rimaste senza foglie che non potevano essere legate, erano sistemate anche sopra i tetti bassi degli annessi. Le piante rimaste spoglie sui campi erano raccolte tagliandole al pari del terreno, portate a casa servivano anch’esse da foraggio.

La sgranatura delle pannocchie

Quando il granturco era ben asciutto si provvedeva alla sgranatura che consisteva nello staccare i semi dalla loro sede sulla pannocchia. Per questa operazione si usava il vomere degli aratri. Particolarmente adatto era quello applicato all’aratro di legno usato per tracciare i solchi che servivano allo scolo delle acque sui campi. Si poneva il vomere sopra una seggiola sedendoci sopra per tenerlo fermo e si strusciava la spiga contro il taglio facendo cadere i chicchi dentro il recipiente posizionato sotto, in meno di un minuto il torso rimaneva nudo, però di tempo ne occorreva molto essendo il numero delle pannocchie elevato. Negli anni cinquanta cominciammo ad utilizzare le trebbiatrici: simili a quelle del grano ma molto più piccole, svolgevano il lavoro della sgranatura in circa un’ora contro diversi giorni che occorreva per quello fatto manualmente.

La preparazione della polenta

Il seme di mais, dopo averne accantonato una piccola quantità per la nuova semina, serviva per alimento a tutti gli animali, al naturale o sotto forma di farina. La farina però si usava anche in famiglia. Ricordo in quelle serate d’inverno il grande paiolo di rame sul fuoco appeso alla catena, appena l’acqua cominciava a bollire mio padre, seduto sulla panca del cantone, munito di uno staccio con una mano tirava un poco a se il paiolo e a tre mani, insieme con mia nonna, versavano lentamente la farina dentro il paiolo e contemporaneamente con il cernicchio giravano l’impasto per evitare che si formassero dei grumi. Finito di versare la farina si lasciava bollire ancora mi sembra per 20 o 30 minuti. In questa fase era indispensabile continuare a girare il fluido altrimenti, come da un magma vulcanico si verificavano degli scoppi che gettavano in alto parti di impasto che, se avessero colpito le persone, avrebbero provocato delle ustioni.

Quando si riteneva che la polenta fosse ben cotta, sempre in due persone si afferrava il paiolo e si rovesciava su una spianatoia sopra il tavolo. L’impasto bollente si allargava sul piano a macchia d’olio formando una specie di grande pizza, spessa al centro e man mano più sottile all’esterno. La polenta era raccolta con un cucchiaio, ancora ben calda, versata sui piatti, condita con il sugo costituiva un’ottima cena. La rimanenza, la parte maggiore, era coperta con un telo e lasciata sulla spianatoia. Il giorno seguente e anche per più giorni, la polenta rafferma si affettava per mezzo di un filo da cucire e si scaldava su un treppiede sopra la brace girandola per tutti i lati. Si formava una croccante crosticina uniformemente su tutta la fetta, la mangiavamo così senza nessuno condimento, gustosissima.

Vasco Della Giovampaola

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