All’indomani della spezzatura continuava il lavoro della famiglia intorno alla carne del maiale. Il grasso sminuzzato era depositato dentro un pentolone e messo a bollire sul fuoco. Lentamente il grasso si scioglieva formando quel liquido trasparente quasi incolore lo strutto che veniva raccolto con un ramaiolo e, previo filtraggio per togliere qualunque impurità, era versato dentro un contenitore. Il primo recipiente da riempire era la vescica stessa del maiale. Si formava così la così detta zucchetta che somigliava ad una grossa pera. Altri recipienti da riempire erano zuppiere in porcellana ed anche caraffe di vetro. Una giornata non era sufficiente per sciogliere tutto il grasso, alla sera si toglieva dal fuoco ed il residuo veniva depositato in una pentola molto più piccola. Il lavoro proseguiva il giorno seguente fino a che del macinato non restava altro che piccoli residuati non più fondibili, i “friccioli” che erano utilizzati per condire le ciacce. Freddandosi lo strutto si solidificava formando una pasta di colore bianco come la neve. Lo strutto era usato in cucina in alternativa all’olio d’oliva in particolare per fritture, ma anche per la cottura di cibi vari. Veniva consumato non oltre l’inizio dell’estate altrimenti con il caldo eccessivo si sarebbe fuso e sarebbe andato a male.
Il fegato, la lingua, il cuore ed i polmoni venivano tagliati a pezzi per realizzare i fegatelli. Chiamavamo in questo modo anche quelli formati dalle parti diverse dal fegato stesso. I pezzi venivano accostati ad un mucchietto di polvere formato da sale, pepe e qualche altra spezia, e soprattutto da abbondante fiore di finocchio selvatico. Così trattati i fegatelli venivano avvolti nella retina tagliata a quadretti che era ricavata dalla membrana che avvolgeva i polmoni del maiale. I fegatelli venivano poi infilati con degli stecchi, depositati su dei tegami in coccio e cotti a fuoco lento. La conservazione avveniva dentro gli stessi recipienti della cottura ricoperti totalmente da strutto. La consumazione, anche per i fegatelli, si faceva prima dell’arrivo della piena estate. Lo stomaco tagliato a pezzettini e cotto con salsa di pomodoro o altro, “la trippa”, era mangiato entro pochi giorni dalla macellazione. Altro boccone prelibato erano le costole che venivano cotte alla brace oppure in padella con sughetto al pomodoro.
I pezzi a più lunga conservazione solitamente si appendevano nella cucina, ai fili che servivano per il tabacco, stanza molto ampia con soffitto alto e ben arieggiata adatta pertanto ad una buona stagionatura. Uno dei rigatini veniva torchiato, cioè ridotto in forma cilindrica in modo che all’esterno fosse interamente protetto dalla cotenna. A lato veniva saldato con del grasso. All’interno era aromatizzato con finocchio. Con questo trattamento si otteneva una più lunga conservazione. Capocolli, lombi, rigatini e lardi erano consumati per lo più nella prima parte dell’anno. Prosciutti e mortadelle si conservavano più a lungo e venivano consumati fino al periodo della nuova macellazione. Le cotenne che si liberavano man mano che i pezzi venivano affettati servivano per fare i così detti “fagioli con le cotiche”, uno stufato cotto su tegami in coccio.
Parti precedenti
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